sabato 23 luglio 2011

There's something in his eyes...

Qualcosa che trascende la materilità, che si compie solo nella bellezza benedetta dall'arte.
La sua figura iconica lascia presagire come tutto in precendeza fosse già scritto: da terre lontane, lo spirito di un guerriero nobile giunge a disegnare i lineamenti di un corpo che sarà tempio di un'anima troppo grande da contenere e troppo grande da controllare.
Nello spazio di una breve vita dispensa poesia inquieta, sognante e ribelle per la sua epoca e per i suoi figli. Poi agguanta il rock, giovane e magnetico mezzo espressivo di una nuova generazione, cavalcando il suo ego lanciandosi dentro labirinti di pura follia creativa.
E' solo l'inizio di un processo interiore che avrà fine, follemente, su lidi fin'ora a noi sconosciuti. Lui è li, sospeso tra nuvole lisergiche e verità rivelate dopo un'intera vita di interrogativi, affrontati con la cusiosità mai sazia di un ragazzo costantemente in procinto di pagare un prezzo carissimo per il dono ricevuto e per la responabilità, mai realmente accettata, della missione a lui prescritta.
Ma è con la follia del sognatore che il mondo può aspirare a cambiare.
Tutto questo sembrano riassumere ed esprimere quegli occhi densi, letteralmente animati da un fuoco atavico che imperterrito continua a bruciare su legna appartenuta ad antiche porte, ormai socchiuse dal tempo.
Vorrei, per un istante soltanto, entrare in quel mondo e lasicare dietro l'uscio la paura per una nuova esperienza, per vedere oltre l'infinito delle cose, rivelate per ciò che sono; per immergermi nell'io e fottere "questa" realtà.
Vorrei mi bastasse tutta la sua musica, la loro musica, per comprendere quanto la mente è capace di dilatare e donare nuovo significato alla strada che percorriamo, soprattutto nei momenti in cui ci sfugge la bellezza di ciò che c'è intorno; come spaesati, senza dimora, e privi di destinazione.
Se solo avessi le capacità per decifrarne il senso, quegli occhi mi apparirebbero meno estranei di quanto in realtà non sono. Perchè questi, avvolti dal mito, mi ammaliano e scacciano via ogni  mio tentativo di razionalizzazione. Costringono a specchiarti con prepotenza e senza ragione, ed è li che tutto appare esattamente com'è: magnetico e senza fine, e il cerchio sembra chiudersi.
Come portatori di un messaggio che vuole essere universale, rivelano la loro natura lungo un percorso che non poteva essere che quello disegnato nell'iride.
Un percorso che era già dentro colui che li "indossava".

giovedì 14 luglio 2011

Qui dentro Ci Si Skiaccia!

Spunta una foto: il sottoscritto, primi anni ’90. In testa, sopra il berretto puntato a sud, cuffie due volte più grandi delle orecchie collegate ad un Sony Walkman agganciato alla cinta dei pantaloni che fa fatica a tenere su, allo stesso tempo, le brache e il marchingegno. Tutta colpa di una musicassetta, la prima duplicata da un cugino più grande e più scafato di me che guardavo con un misto di ispirazione e invidia. Da quell’improbabile lettore pratico come un’edizione tascabile di “Guerra e pace”, sparo letteralmente in cuffia “La mia moto”, secondo album di Jovanotti. Prima di allora erano state le musicassette dello Zecchino d’Oro ad avermi sconvolto l’esistenza; tutti quei canti innocenti, quell’allegria perenne, quei bimbi dinamici come i manichini della Upim: il Piccolo Coro dell’Antoniano era la mia terra promessa; giocattoli, biscotti e rock‘n’roll.
Poi arrivò lui, uno spilungone con la “s” offesa, giubbotto da baseball e felpa legata in vita che stendeva rime veloci e sghembe su basi martellanti. Dopo il primo ascolto abbandonai all’istante l’età dell’infanzia; a quel punto avevo visto l’America: pretendevo un Harley e volevo essere il capo di un’ipotetica banda.
Lorenzo Cherubini aveva sdoganato gli USA in Italia condensando ingenuamente nella sua figura l’immaginario della “street culture” delle metropoli americane, un mix di rap e skate park, muri colorati da graffiti e potenti motociclette truccate. L’effetto sui ragazzini, soprattutto su quelli di provincia, fu devastante. A me sembrò di aver scoperto un mondo intero.
Ho sempre avuto la sensazione che i miei capissero cosa stessi provando, nonostante viaggiassero in macchina con un invasato sul sedile posteriore che aveva requisito lo stereo della loro Fiat 127 per gasarsi sulle note di “Ci si skiaccia”. Quello stile, quella sfrontatezza, quel disordine dialettico tra le rime, stavano creando un nuovo ed inevitabile spartiacque generazionale, il mondo adulto da una parte e quello dei giovani dall’altra, qualcosa che anche loro dovevano aver provato. Probabilmente ballando e cantando “Prisencolinensinainciusol”. Jovanotti divenne l’Adriano Celentano della nostra generazione.
La critica, ovviamente, provvide a smontare minuziosamente pezzo per pezzo  questo “simbolo del disimpegno giovanile”.
Ma, onestamente, chi avrebbe scommesso all’epoca sul futuro del Jovanotti cantautore e sulla sua crescita artistica? Forse nemmeno mastro Cecchetto dopo aver ascoltato le evoluzioni di “Penso positivo”. E invece le esperienze, i libri divorati, i  viaggi, la paternità, i lutti, la politica, la religione, cambiarono il senso delle cose, la totale prospettiva del percorso. Jovanotti diventava sempre meno Jovanotti per trovare sempre più Lorenzo. Una crescita personale autentica, sintetizzata in musica con dischi come “L’albero” e “Capo Horn” fino all‘ultimo “Ora”, che hanno accompagnato la nostra crescita in un continuo viaggio parallelo, il suo e il nostro. Credo stia qui il senso di questa storia, quella di un ragazzo che per sua stessa ammissione non aveva alcuna dote particolare come cantante, ma che sentiva di poter comunicare vita.
Quella musicassetta duplicata, miracolosamente, è ancora qui. Dentro, tra i titoli scritti a penna, c’è un mio appunto che recita: “grazie Jovanotti. Ti voglio bene”. 
Cavolo se gliene voglio ancora.

giovedì 7 luglio 2011

Dieci frasi che potresti sentire in un call center...

... e decidere, di conseguenza, di licenziarti all'istante*.


10. "Signora, stia assolutamente tranquilla. Dando l'assenso telefonico a questo contratto non le cambieremo nulla..."
(Se non ti piglia un rimorso di coscienza entro 15 secondi sei un uomo spietato...).

9. Team Leader (figura professionale predisposta al controllo qualitativo delle chiamate): "Ragazzi, rendetevi conto che qui dentro potreste trovare l'occasione della vostra vita! Certi treni non passano due volte..."
(Suggerisco una risposta: "No, grazie. Preferisco piuttosto finirci sotto, al treno").

8. Team Leader all'operatore: "Signore, dovrebbe fare la visita medica, prego da quella parte..."
(L'avevo detto che quel feedback che sento da quando lavoro qui non era un difetto della cuffia....).

7. Durante il finto colloquio, la Direttrice: "Lei ha mai fatto esperienze di selling?". (lungo silenzio). Aspirante operatore: "Si, ehm...su ebay, ogni tanto apro qualche asta...". Direttrice: "Perfetto, lei ha tutte le competenze per iniziare!".

6. Team Leader (mestruanda): "Senti, dovresti toglierti l'orecchino. Per piacere, camicia dentro e giacca domani. E mi raccomando la cravatta sempre! Qui dobbiamo apparire professionali ai nostri clienti!".
(Ma da quando utilizziamo le videochiamate!?).

 5. Team Leader (un Costantino Uomini&Donne 2.0, stiloso e super accessoriato): "Voi ragazzi immaginate che questo muro bianco di fronte a voi sia la vasta distesa dei clienti. Noi, con le nostre capacità di venditori, andiamo a dare delle pennellate decise di rosso fino a riempire il bianco. Siamo artisti del commercio".
(E' chiaro. Questo fuma solo roba buona).

4. Team Leader: "Ragazzi! Attenetevi al copione, non prendete iniziativa e portate a casa il contratto!"
(La recita di fine anno è sempre il momento più atteso da tutti).

3. Operatore: "Pronto, signora Euripide!? Bungiorno! Mi ascolti sono...". Dall'altra parte: "Signor Euripide. Giovanotto, mi sa che lei il capitolo sulla Grecia l'ha proprio saltato a scuola...". Operatore (con faccia da ebete): "Ehm, ah, si..credo. Chiedo scusa, buona giornata a lei...".

2. Operatrice, in evidente stato di astinenza da membro maschile, applica il metodo "Il Padrino": "Signora mi ascolti, signoraaa! Signoraaa, mi ascolti. Guardi, le faremo un'offerta che non potrà rifiutare!".
(Al massimo una capoccia di cavallo nel letto la farà riflettere meglio...).

1. Operatore: "Pronto! Maaaa bungioooorno signor Enzoooo!" .... Enzo: "Ma n'atevela a pija n'der culo!" .... Operatore "Grazie a lei e arrivederci!".


*tratto da una storia vera.

mercoledì 6 luglio 2011

122 Sant Mark's Place - Est Village, New York.

Finalmente ho visto il Sin-é.
Papà dev'essere crollato alla mia ennesima richiesta. Erano mesi che lo stressavo: desideravo entrare in quel locale, soltanto questo. Niente tour panoramici, niente statua della libertà, niente Empire State Building. Solo un piccolo locale dall'arredamento minimale nel cuore di New York, al 122 di Sant Mark's Place, nell'Est Village.
Era come l'avevo sempre immaginato.
Assi di legno sul pavimento, tavoli e sedie consumati disposti casualmente all'interno, un vecchio bancone in tinta che resiste ancora alle scivolate dei cocktail. Non c'era nessuno. Quel locale viveva esclusivamente di notte, erano le persone ad animarlo, così come ogni locale del mondo.
Era pomeriggio.
Nitida l'emozione che provai soltanto nel varcarne la soglia. Un calore familiare, una stretta intorno alle braccia. Era come fossi stato sempre li, era come se ogni centimetro quadrato di qual posto conoscesse me e mi attendesse da tempo. Dentro, in quell'istante, ero profondamente felice e triste.
Ad accoglierci soltanto il proprietario, barman irlandese immigrato qui sul finire degli anni '80, costretto e ammaliato dal grande sogno americano. Ci saluta ed invita a restare nonostante il vuoto intorno a noi.
Ci osserva e capisce subito: stranieri. Quando gli dico cosa ci facciamo li rimane stupito dal nostro sacrificio immolato sui chilometri percorsi alla ricerca di qualcosa che in fondo non c'era. Tutto ciò che può fare è omaggiarci offrendoci un caffè, caldo, lungo, nero nella profondità del suo pratico contenitore di plastica.
Papà mi guarda, ho già capito: non è caffè italiano; lui è fatto così. "Pà, dai...". Lo riprendo immediatamente ma è troppo educato per rifiutarlo e la questione scivola via senza dover aggiungere nulla.
Mi guardo intorno, cerco ogni particolare. Ora che sono li, ora che ho toccato quelle mura e calpestato quel pavimento sento di aver chiuso il cerchio. Un tributo come ringraziamento. Un viaggio come per ritrovarci laddove mi ero perso, tra note di melodie senza consistenza, piombate dal cielo come stelle cadenti, desiderate da eterni sognatori a tal punto da sottrarle al cielo.
Può una stanza, una strada appena fuori, le vetrate del palazzo di fronte, il marciapiede ampio, un sottoscala, catturare e impregnarsi di magia, di una voce, del riverbero controllato delle corde di una telecaster color crema restando materiali di una quotidianetà che scivola via veloce? I miei occhi riempiono lo spirito, registarno forme e geometrie intorno, pronte per essere collocate nella cartella del ricordo. Sono qui. Incredibile, sono qui.
Eppure, nel contempo, avverto un senso di incompiutezza.
La Storia è già passata.
Non c'era nulla che i potessi fare davanti a l'ineluttabile sentenza del tempo.
Sentii improvvisamente di esser solo. Di aver mancato la creazione del vortice su cui più tardi avrei potuto soltanto volteggiare come un satellite attratto magneticamente.
Non importa. No, non ora ne mai.
Ciò che sto vedendo è già un dono. Una visione, un regalo. Ciò che ho già avuto sarà per sempre.

Fine.

La sveglia. Stacco la faccia dal cuscino. Sono a casa.


                                                     Grazie. Ovunque tu sia.

Ho il mio polmone d'acciaio

Volevo uno spazio per divagare a piacimento. Uno spazio contro la crisi. A metà tra quella del mercato e quella interiore. Qualcosa che tenesse in vita l'organo dei sensi portando ossigeno alla testa. Userò il blog come un polmone d'acciaio.
Aria d'emergenza recuperata e offerta.


Grazie. Ciao.


Were too young to fall asleep
too cynical to speak
we are losing it, can't you tell?


(siamo troppo giovani per addormentarci
troppo cinici per parlare
non ce la facciamo più, non lo vedi?)