mercoledì 21 dicembre 2011

The Future Is Unwritten

To Strum: strimpellare, to s. (on) a guitar, strimpellare la chitarra.

Quella vecchia Fender Telecaster ne sà qualcosa, diamine!
Sopra quel legno usurato dal tempo ci è passata una fetta di popular music così rilevante e significfativa da renderlo ancora rovente.
Dove sei Joe?
A chi starai raccontando della tua vita terrena spesa a raccogliere e a raccontare le storie della tua gente e del tuo tempo?
Forse ci stai solo guardando con quel sorriso furbo di chi ha capito, in silenzio, mentre noi, poveri sognatori, siamo ancora alla ricerca della verità.
E quella sorte bastarda e gloriosa ti ha pure reso immortale, vivo, in mezzo al delirio quotidiano che noi chiamiamo musica.
No, non ci credo; Joe Strummer in compagnia degli altri grandi andati via troppo in fretta, mi viene da sorridere. Tu preferiresti un luogo "normale", dove il rumore delle anime semplici si confonde con il suono della tua musica, dove i racconti sono quelli delle persone come te, dove il ritmo di una festa si compone delle musiche del mondo.
Non sei nel paradiso delle rock star.
Avremmo bisogno ancora di te; non che la musica che ci hai lasciato non basti ma, ecco, oggi sarebbe importante capire dalla tua esperienza, dal tuo essere artista e del tuo appropriarti di arte nel rispetto di chi, come te, ne ha fatto fino alla fine una questione importante, un credo.
Sembra banale parlare di ideali in un mondo (musicale) soggiogato dai compromessi. Manca la sincerità Joe, manca il rispetto per ciò che siamo e per ciò che siamo stati; il peso e l'importanza delle origini si è svuotato dopo una lenta ed estenuante trattativa con le nuove forme di espressione dove non si E', si appare.
A volte penso, come ci sei finito in quella Londra sudicia di violenza e criminalità che farà poi i conti, pesanti, con se stessa?
Un pellegrino assetato di conoscenza e di luoghi, che lascia la comodità di una vita tranquilla per cambiare e restare se stesso. Hai scelto, Joe, e sei andato avanti così, finchè quel cuore stremato dalla fatica e dalla passione ha detto basta.
La responsabilità di abbracciare in pieno un significato (culturale) per farne messaggio di solidarietà tra i popoli; non lo hai costruito solo con le perole, ma lo hai prodotto con la musica, riuscendo laddove mille discorsi naufragavano sotto i colpi dei manganelli.
No, non ci sono solo le canzoni.
C'è la tua storia da tramandare, il tuo coraggio e la tua coerenza, i valori di un uomo che non ha mai dimenticato il pubblico, le persone, il senso della civiltà.
I Clash resteranno li, leggendari, al margine della storia musicale del nostro tempo, unici, come solo i grandi eroi sanno essere.
E tu Joe, eroe tra gli eroi, per sempre uno di noi: capace di trascinarci come un leader, di sbagliare, di restare umano e fragile ma con la caparbietà e l'orgoglio di chi è padrone della propria vita e delle proprie scelte.
Sta tutta qui la tua essenza; perché ogni uomo ha in mano il proprio destino, ed il futuro non è scritto.


"Scrivo canzoni di protesta, quindi sono un cantante folk. Un cantante folk con chitarra elettrica"
Joe Strummer


giovedì 20 ottobre 2011

Stay "angry", stay foolish.

Questo paese è vecchio. E si sta spaccando.
Da una parte il nuovo che avanza tra indignati e violenza, quest’ultima figlia tanto dell’ignoranza quanto della disperazione. Dall’altra l’Italia dei vecchi. Quelli della senilità d’animo, dell’appagamento garantito, dal futuro omologato.
La tv diventa allora il palcoscenico di uno scenario decadente, alimentato da due forze in campo in una battaglia per il terreno del presente.

Giampaolo Pansa, noto giornalista, era tra gli opinionisti de “La Vita in Diretta” qualche pomeriggio fa. Tema della puntata: il precariato. Marco Liorni, che conduce, apre con il servizio dedicato ad un ragazzo precario. Quotidianità in bilico e sacrificio, questo il sunto del filmato. Al rientro in studio, Liorni chiede un commento a Pansa che liquida la vicenda del protagonista riassumendola come la tipica vita da “sfigato”.
“Sfigato”. Questa la sua mera opinione guardando un ragazzo che tra lavori per la sopravvivenza sogna un futuro diverso, migliore (leggo ora tristemente sul suo blog che Bruno, questo il suo nome, sarà costretto a nuovi sacrifici per colpa dello stesso servizio mandato in onda). Nello studio, ospiti anche loro, dei ragazzi precari; studenti perlopiù provenienti da facoltà umanistiche. Anche le loro storie simili a tante altre: studio, lavori mal pagati, una laurea, tanti sogni. E qui Pansa, evidentemente ispirato, prosegue con la sua linea di ferro: bolla le università come “vie al fallimento”, auspica che il presidente del consiglio tolga “valore legale alle lauree, soprattutto a quelle umanistiche” e invita i presenti a “darsi da fare, a partire da domattina, lasciando stare sogni fatui”.

Alla base della (delirante) predica del sig. Pansa ci sarebbe a suo avviso un ragionamento logico: “la crisi come dato di fatto”. Prendere coscienza della situazione, rinunciare ad un percorso per affrontarne un altro. Da una parte lo stato che risparmia annullando il ruolo delle università, dall’altra nuova forza lavoro per il paese. Sporcarsi le mani insomma, andare a produrre qualcosa di concreto. E qui, come in un assist colto al volo, la regia ricama un servizio in diretta da una pasticceria, l’ennesimo invito a constatare che di lavoro ce n’è, che si guadagna bene, ma che bisogna aprire gli occhi per rendersene conto.

Eccola qui la soluzione, signori. La tv che riacquista la sua funzione sociale spiegandoci cosa va fatto, come comportarsi. Un teatrino ben noto, ormai. Facile, troppo facile collocarsi nella posizione di chi è in grado di indicare la via pubblicizzando quotidianamente personaggi privi di morale ed etica, gente da reality, figuranti trogloditi, esteti del cattivo gusto e arrivisti di prima classe. Quale lavoro? Quale sacrificio? Quale dignità per tali figure? Interrompete le trasmissioni! A lavare la coscienza, di corsa per piacere!

Ma dobbiamo capire, è una questione di opportunità per l’amor di Dio, non per altro! Lo ribadisce Pansa, poco dopo: “non siamo mica nel dopoguerra, durante gli anni di crescita. Li c’era bisogno di cronisti, così dopo la laurea in scienze politiche mi chiamarono a “La Stampa” e iniziai. Ora non è così, occorre altro, mettetevelo in testa voi studenti!”.
Opportunità. Tutto si riduce a questo allora. Eccolo sintetizzato in maniera esemplare il sistema Italia: raccogliere un’opportunità, ma, attenzione, qualunque essa sia, a qualunque condizione, a qualunque costo, per il bene proprio ma soprattutto del paese stesso e delle poltronissime in prima fila del parlamento.

E delle ambizioni? Cosa ne faremo? Dello studio, della ricerca, del progresso che solo un’istituzione come l’università può fecondare? È qui, tra questi due poli, tra l’offerta delle loro opportunità e le nostre ambizioni che la linea di demarcazione tra una generazione arrivata ed una che spinge arrabbiata pone un confine. È qui che il confronto tra le due parti diventa evidente, prende le misure e ci divide, proprio come negli anni ’60: loro e noi. Due mondi, due visioni contrapposte. Una incapace di alzare la prospettiva dello sguardo perché stanca e appagata. L’altra cosciente del pericolo di restare cieca.

Difficile riuscire a stabilire un confronto alla pari. Soprattutto se il vecchio intimorisce il nuovo spaventandolo. Perché mentre Pansa attacca, i ragazzi nello studio frenano, forse per timore reverenziale. Provano a controbattere, timidamente. Ma finiscono per perdere un’occasione, lasciando che sia un altro opinionista a mediare per loro, senza attaccare. Quanto di più sbagliato potessero fare.

È arrivato il momento di sovvertire il sistema. Di modificare lo stato delle cose. Basta ascoltare i consigli di una generazione che ha fatto il suo tempo. Che è soltanto capace di suggerire di ravvederci sulle nostre scelte, umiliando dei ragazzi sapendo di farlo. Una generazione che non coglie il mutare della società ancorata com’è a sistemi antichi e a cui sfugge ogni legame con le esigenze e i significati della contemporaneità.
Ma soprattutto, che comincia a perdere seriamente i colpi:

Liorni invita la regia a mandare un filmato. È il video, ormai famosissimo, del discorso di Steve Jobs alla Stanford University. Il focus è su quelle cruciali parole finali: “stay hungry, stay foolish”.
Rientro in studio. Liorni chiede un commento a Pansa, che analizza così: “un bel discorso, però credo che la fame sia un discorso vecchio. Prima la fame la faceva il sud del paese, ora più o meno stanno bene. Sulla follia, non so. Non sono folli i giovani. Sono sprovveduti”.
Nessuno replica. È tutto vero signori.

Se non ora la Rivoluzione, quando?

lunedì 19 settembre 2011

Reset

L'arancione delle foglie riflesse da un sole stanco annuncierà l'inizio di una nuova stagione.
L'estate risorgiamo di colori e lasciamo che sia il calore di un'aria densa a portarci via i pensieri.
Settembre invece assomiglia ad un reset. Ripartire, ricostruire. Dal bianco e nero, basici ed essenziali, per rinnovare una tavolozza di sentimenti ed emozioni con i queli riempire i quaderni del prossimo aprile.
Sta tutto nel concepire l'autunno come un contenitore di nuove possibilità, per rinnovvare gli auspici e le speranze e per goderne magari al ritorno del sole.
Somiglia ad un rifugio, l'autunno. O almeno è così che lo vedo. E' come tornare ad un letargo benefico per l'anima, che si ristora trovando nelle piccole cose l'essenzialità dei giorni che trascorrono lenti, lontani dalla frenetica esuberanza delle giornate estive.
L'autunno è meditativo. Raccoglie le ultime esperienze di un intero anno iniziando al contempo un bilancio di ciò che è stato e segnando in qualche modo le mosse che poi faremo.
L'autunno. Volevo descriverne l'arrivo e le sensazioni ad esso legate utilizzando una playlist ad hoc (nientemeno!). Ma ogni volta ne veniva fuori un personale best of del momento, il che non corrisponde esattamente ad un criterio universale di scelta. Ma, in fondo, quale criterio coordina inderogabilmente la musica che ascoltiamo? I testi costruti su una tematica a noi cara in quell'istante, come può essere, giustappunto, l'arrivo dell'autunno? Forse, ma non solo. A volte ci bastano una melodia giusta ed una voce che racconta di se, senza troppe spiegazioni razionali.
La playlist che trovate qui sotto è un insieme di tutto questo, un mix di parole precise, sensazioni ritrovate e digressioni melodiche che sembrano incastrarsi con questi giorni transitori, tiepidi, presi in mezzo dal grande ciclo delle stagioni.

Enjoy, if you want.


Dan Auerbach - "When The Night Comes" (dall'album "Keep It Hid")

Don’t be afraid
You’re only dreaming...

Una preghiera alla/nella notte. Che oltre al consiglio porta i sogni. Scrigni segreti delle nostre volontà.
Volendo cullarsi da soli in una notte del primo freddo, sarebbe la melodia ideale da registrare dentro un carillon.

William Elliott Whitmore - "Hell Or High Water" (dall'album "Animals In The Dark")

Folk asciutto come legna da ardere. Melodie al sapore di segatura e una voce che sembra averne respirata a sufficenza da far pensare che il nostro scenda giù da un bosco d'altura. E che abbia almeno settant'anni.
Sull'età sbagliate.
Sul resto basta attendere che entri quella dannata voce a scorticare questo spartito d'altri tempi per averne conferma.

Sean Rowe - "Jonathan" (dall'album "Magic")

Voce al sapore di vino, ma di quelli intensi, decisi, che tingono le labbra come pennarelli indelebili. "Paradossalmente" lo adorano in Francia, terra di uva delicate, e non capisco perchè noi ci ostiniamo ad ignorarlo amando così incodizionatamente, ad esempio, il roccioso Montepulciano.
Perchè in effetti si somigliano, per carattere e retrogusto.
Forti e gentili, come figli della stessa madre terra.

Scott Matthews - "Eyes Wider Than Before" (dall'album "Passing Stranger")

Un atterraggio di emergenza sul velluto di una voce consolatoria, rappacificante e meditativa. Prima di razionalizzare un sentimento, come ancora smarrirti dietro gli angoli delle emozioni che tornano, ciclicamente, come fosse sempre la prima volta. Come le stagioni.


Qualunque perdono dovrebbe passare di qui. E poi, per l'appunto, reset.


JBM (Jesse Marchant) - "In A Different Time" (dall'album "Not Even In July")


Sentirsi feriti da una voce. Penetrati e messi a nudo. Le fragilità, le paure, i rimpianti scaraventati alla luce di una verità che non sa dove nascondersi, se non liberarsi con benefiche lacrime. Un senso di impotenza difronte alla forza di un sussurro portato dall'eco di un vento esile che recita:


But if you'd hold my hand and we'd look to the sky
I think that there's a chance we'd once again feel alive
Ed è come se ti appartenesse da sempre, quell'immagine. E' già tua, ma non sapevi di averla.


Risvegliarsi e capire che si, siamo alle porte delle lunghe stagioni del freddo. Ma vuoi mettere riscaldare l'anima con un inno alla vita e alle sue piccoli grandi cose, come ad esempio un ritorno a casa dopo giorni di distanza?
Voce come whiskey d'annata. Calda, corposa, da gustare tutta di un sorso. Ideale prima, durante e dopo una temeraria passeggiata nella nebbia.


Alexi Murdoch - "Orange Sky" (dall'album "Time Without Consequence")


Lo invocheremo quell'arancione. Lo desidereremo "soffocati" da un cielo grigio nei giorni più abulici.
La canzone è un'invocazione, almeno per la nostra mente, recuperando immagini che abbiamo inconsciamente fotografato di un nuovo sole di Marzo. Rinvigorito dal suo largo giro intorno alla terra su cui presto tornerà a gettare le sue calde braccia.

mercoledì 3 agosto 2011

Cronaca di un pomeriggio rock - seconda parte

Siamo nel parcheggio interno alla zona concerti. Roberta, io e Sere ci sediamo sul marciapiede e acceso il registratore partiamo con le prime domande. Come da previsioni, Roberta è disponibile, attenta e risponde con precisione ad ogni quesito glissando soltanto sul significato più ampio che si cela dietro l'ultimo disco (molto probabilmente per colpa mia, avendo posto la domanda con poca precisione rispetto a quanto scritto).
Dieci minuti, tuttavia intensi e perchè no emozionanti. Stiamo parlando con un elemento della rock band italiana del momento, una formazione ormai storica che in dieci anni ha ridato dignità al rock italico con dischi di assoluto valore. Sul finire i toni sono meno professionali, sembra che nella barriera giornalista/musicista sia stato aperto un varco; ora siamo più confidenziali e ci scappano pure due risate quando interviene Sere per domandargli: "Se non foste diventati musicisti, cosa avreste fatto nella vostra vita?" E lei: "Alberto dice sempre che se non avesse fatto il musicista si sarebbe ammazzato. Nel senso che non avrebbe avuto nient’altro per la testa se non suonare! Luca (il batterista) probabilmente avrebbe fatto il disegnatore edile, perché ha studiato per fare quello. Ed io forse avrei studiato per diventare psicologa, per capire me stessa più che gli altri! Poteva essere auto terapia, però anche andare in tour con i Verdena è abbastanza terapeutico, capisci molte cose su te stessa e sulle altre persone. Anche se non ho una laurea in psicologia avrei molto da raccontare sugli esseri umani". Sere: "Chissà, magari scriverai un libro in futuro..." Roberta: "Si, un libro sull’antropologia del tour!" e giù risate. Già ce le vedo ste due diventare amiche.
Quando spengo il registratore capisco di aver raccolto del buon materiale; prima che lei vada via faccio la mossa giusta: "Posso lasciarti il disco, così lo firmate?" .... "Certo, dallo a me, ora torno nel camerino". Mi viene da esclamare Wow!
Roberta torna con il vinile autografato, manca solo la firma di Alberto che nel frattempo sta rispondendo alle domande dell'altra giornalista. Ringraziamo Roberta e attendiamo il cantante che, poco dopo, torna verso il backstage. Vai Fra. "Scusa Alberto, potresti..." .... "Certo". 
E qui, scena epica: piglia il pennarello, fa una A, poi una L, poi la B. Riflette. Compone il suo nome per intero con una calligrafia da ragazzino di quinta elementare fino a formare la O con un tratto più deciso. A questo punto ci guarda. Perplesso. Poi fa una smorfia con il  viso come a dire "più o meno". Saluta e se ne va.
Io e Sere siamo li con due faccie segnate da un sorriso di incredulità: ma sto tipo, che ha fatto?
Felici per l'esperienza e affamati dall'ora, ci avviciniamo all'area ristoro. Sere con voce suadente fa: "Certo che, l'hot dog, tiraaa..." . Forse si è eccitata incrociando lo sguardo di Alberto, o forse l'hot dog di Guarduagrele è afrodisicaco, non lo so. Glielo faccio notare ma lei ride. E' pure imbriaca?
Ceniamo e attendiamo i Verdena sul palco. Alle 23:00 ci siamo. Tocca a loro. Inizia il viaggio, ed è sempre un gran partire per dove ognuno sa.
Nel mezzo, l'ultima perla della giornata. "Scegli me" che Sere attende da matta dopo averla soltanto "sfiorata" durante il check. Alberto fa partire l'attacco al piano con due mani: tan, tan, tan, tan ,tan, tan, scegli meeee! C'è qualcosa che non va, ancora quel riverbero: pezzo davvero stregato se è dal pomeriggio che i quattro (con loro c'è anche l'amico Omid dal vivo) gli stanno dietro invano. Sembrano voler andare avanti, ma niente da fare. E qui Alberto da il meglio di se. Prima tenta senza successo di dare indicazioni al tecnico di palco, poi, in preda al nervosismo, inizia a battere i pugni sulla tastiera. Ci riprova e ancora nulla, ora è rabbia: di nuovo due cazzotti assestati al centro dell'incopevole tastiera e via dietro il palco. Pausa.
Gli altri capiscono il momento, Roberta sorride dispiaciuta e mortificata verso il pubblico. Siamo tutti con lei, con loro. Perchè nonostante tutto è un live set da paura quello dei Verdena: intenso, sudato, viscerale. Rock. Non c'è bisogno di perdonagli nulla, a noi va bene così. "Razzi, arpia inferno e fiamme" ci commuove, "Angie" ci fa cantare. E' tutto ok, davvero.
Alberto torna e dice: "Scusate, facciamo pena stasera". Cazzate. Ne vogliamo ancora. E allora dai con "Muori delay" e "Isacco nucleare". Gran finale con una jam di noise contorto insieme agli opener Mariposa.
Poi sautano con un secco "grazie, ciao".
Siamo felici, giornata piena. Io mi sento soddisfatto, come un vero reporter. Fosse sempre questa la nostra sbobba quotidiana! Ma per oggi niente lamentele, solo la dolce sesazione di aver goduto del rock e delle sue piccole grandi storie quotidiane.
Accendo il navigatore. Ripartiamo.

martedì 2 agosto 2011

Cronaca di un pomeriggio rock - prima parte

Sabato io e Sere siamo andati a vedere i Verdena. Trasferta collinare to Guardiagrele rock city. Roba da navigatore per chi, come noi, parte dalla provincia di Pescara per passare nel territorio estero della provincia di Chieti. E nemmeno si parla del centro cittadino: zona industriale dispersa tra lande abruzzesi rigogliosamente colorate di un verde estivo. Impreca con il satellite, chiedi un informazione ad un autoctono e la sana botta di culo, alle 17e30 siamo alla "venue", parolona che non sentivo da un'infinità di tempo e che nel gergo degli uffici stampa sta per "luogo del concerto". Ufficio stampa in questo caso della band suddetta: siamo li per intervistarli, mica bruscolini. Band che definire ostica è dire pochissimo; nota, infatti, è la loro avversione per giornali e giornalisti, o presunti tali, che puntualmente, ad ogni uscita discografica, sono li a deprimerli con un fuoco di domande paragonabile ad un copione perpetuo. E un pò li comprendo. Dunque lavoraccio sporco, da ore passate in cameretta a rimuginare sulle virgole di ogni quesito composto con tutta la professionalità possibile e con un filo costante di riverenza che la mia/nostra passione per la loro musica provoca inevitabilemte. Zaino in spalla, registratore-macchinetta, vinile di "Wow" e pennarello indelebile per apporvi su gli autografi: il kit del perfetto fan è ok. Vamos!

Come da accordi con il loro disponibilissimo e gentilissimo tour manager Roberto, attendiamo la band che, al nostro arrivo, sta completando il soundchek. E qui, nemmeno il tempo di godere di una "Scegli me" versione "mi godo il palco senza nessuno stronzo davanti a coprire la visuale", capiamo subito che saranno cazzi.

Alberto, leader della band, ha un problema al microfono: l'attacco del pezzo provoca una specie di rantolo riverberato. Prova e riprova a sistemare l'assetto, la tensione sale e lo scazzo tra l'irascibile moro e gli altri placidi compagni aumenta all'inverosimile. Io e Sere ci iniziamo a guardare preoccupati; tutti e due sappiamo che non sarà facile averli vicino e a loro agio dopo un chek andato quasi a escort.

Sono le 18e15 circa quando i tre scendono dal palco: cazzo, tocca a noi! Eh si, siamo tesi, almeno io lo sono. Sere c'ha sempre quell'aplomb da giornalista affermata che mi fa paura ed io, al confronto, sembro un novellino. Ma sono i Verdena, mica i Dik Dik. Mi do un contegno il tempo necessario per riordinare le idee ed ecco arrivare in avanscoperta il tour manager ad offrirci le prime indicazioni. Siamo li in quattro ora, un'altra giornalista è sul posto accompagnata da un'amica, anche loro prenotate per due chiacchiere con la band. Mi scappa subito un "e che cazzo!" mentale all'idea che lo smaronamento per la band sarà doppio dopo ben due sedute di psicologia rock. Pazienza. Il tour manager ci avvisa subito: "Arriveranno Roberta (la bassista) e Alberto (il cantante): nel primo caso registrate come volete, nel secondo niente video" Interviste separate. Bene.

Dopo il preambolo del chek tifo silenziosamente per avere Roberta, non per timore reverenziale dell'affascinante leader con l'umore contorto, ma per la risaputa disponibilità al dialogo della rossa musicista che, al contrario di quest'ultimo, ha più cura nel rispondere con precisione alle domande, senza divagare a piacere come sotto effetto anfetaminico (ad onor del vero, a fine serata sentirò un po il dispiacere di non averli potuti beccare insieme, sarebbe stato molto interessante, ma in fondo va bene così). Il boss dice che noi siamo i primi e in quanto tali ci tocca la Roberta; lei arriva e soddisfatti ci presentiamo, stretta di mano decisa e via alla ricerca di un posto appartato per iniziare l'intervista.

sabato 23 luglio 2011

There's something in his eyes...

Qualcosa che trascende la materilità, che si compie solo nella bellezza benedetta dall'arte.
La sua figura iconica lascia presagire come tutto in precendeza fosse già scritto: da terre lontane, lo spirito di un guerriero nobile giunge a disegnare i lineamenti di un corpo che sarà tempio di un'anima troppo grande da contenere e troppo grande da controllare.
Nello spazio di una breve vita dispensa poesia inquieta, sognante e ribelle per la sua epoca e per i suoi figli. Poi agguanta il rock, giovane e magnetico mezzo espressivo di una nuova generazione, cavalcando il suo ego lanciandosi dentro labirinti di pura follia creativa.
E' solo l'inizio di un processo interiore che avrà fine, follemente, su lidi fin'ora a noi sconosciuti. Lui è li, sospeso tra nuvole lisergiche e verità rivelate dopo un'intera vita di interrogativi, affrontati con la cusiosità mai sazia di un ragazzo costantemente in procinto di pagare un prezzo carissimo per il dono ricevuto e per la responabilità, mai realmente accettata, della missione a lui prescritta.
Ma è con la follia del sognatore che il mondo può aspirare a cambiare.
Tutto questo sembrano riassumere ed esprimere quegli occhi densi, letteralmente animati da un fuoco atavico che imperterrito continua a bruciare su legna appartenuta ad antiche porte, ormai socchiuse dal tempo.
Vorrei, per un istante soltanto, entrare in quel mondo e lasicare dietro l'uscio la paura per una nuova esperienza, per vedere oltre l'infinito delle cose, rivelate per ciò che sono; per immergermi nell'io e fottere "questa" realtà.
Vorrei mi bastasse tutta la sua musica, la loro musica, per comprendere quanto la mente è capace di dilatare e donare nuovo significato alla strada che percorriamo, soprattutto nei momenti in cui ci sfugge la bellezza di ciò che c'è intorno; come spaesati, senza dimora, e privi di destinazione.
Se solo avessi le capacità per decifrarne il senso, quegli occhi mi apparirebbero meno estranei di quanto in realtà non sono. Perchè questi, avvolti dal mito, mi ammaliano e scacciano via ogni  mio tentativo di razionalizzazione. Costringono a specchiarti con prepotenza e senza ragione, ed è li che tutto appare esattamente com'è: magnetico e senza fine, e il cerchio sembra chiudersi.
Come portatori di un messaggio che vuole essere universale, rivelano la loro natura lungo un percorso che non poteva essere che quello disegnato nell'iride.
Un percorso che era già dentro colui che li "indossava".

giovedì 14 luglio 2011

Qui dentro Ci Si Skiaccia!

Spunta una foto: il sottoscritto, primi anni ’90. In testa, sopra il berretto puntato a sud, cuffie due volte più grandi delle orecchie collegate ad un Sony Walkman agganciato alla cinta dei pantaloni che fa fatica a tenere su, allo stesso tempo, le brache e il marchingegno. Tutta colpa di una musicassetta, la prima duplicata da un cugino più grande e più scafato di me che guardavo con un misto di ispirazione e invidia. Da quell’improbabile lettore pratico come un’edizione tascabile di “Guerra e pace”, sparo letteralmente in cuffia “La mia moto”, secondo album di Jovanotti. Prima di allora erano state le musicassette dello Zecchino d’Oro ad avermi sconvolto l’esistenza; tutti quei canti innocenti, quell’allegria perenne, quei bimbi dinamici come i manichini della Upim: il Piccolo Coro dell’Antoniano era la mia terra promessa; giocattoli, biscotti e rock‘n’roll.
Poi arrivò lui, uno spilungone con la “s” offesa, giubbotto da baseball e felpa legata in vita che stendeva rime veloci e sghembe su basi martellanti. Dopo il primo ascolto abbandonai all’istante l’età dell’infanzia; a quel punto avevo visto l’America: pretendevo un Harley e volevo essere il capo di un’ipotetica banda.
Lorenzo Cherubini aveva sdoganato gli USA in Italia condensando ingenuamente nella sua figura l’immaginario della “street culture” delle metropoli americane, un mix di rap e skate park, muri colorati da graffiti e potenti motociclette truccate. L’effetto sui ragazzini, soprattutto su quelli di provincia, fu devastante. A me sembrò di aver scoperto un mondo intero.
Ho sempre avuto la sensazione che i miei capissero cosa stessi provando, nonostante viaggiassero in macchina con un invasato sul sedile posteriore che aveva requisito lo stereo della loro Fiat 127 per gasarsi sulle note di “Ci si skiaccia”. Quello stile, quella sfrontatezza, quel disordine dialettico tra le rime, stavano creando un nuovo ed inevitabile spartiacque generazionale, il mondo adulto da una parte e quello dei giovani dall’altra, qualcosa che anche loro dovevano aver provato. Probabilmente ballando e cantando “Prisencolinensinainciusol”. Jovanotti divenne l’Adriano Celentano della nostra generazione.
La critica, ovviamente, provvide a smontare minuziosamente pezzo per pezzo  questo “simbolo del disimpegno giovanile”.
Ma, onestamente, chi avrebbe scommesso all’epoca sul futuro del Jovanotti cantautore e sulla sua crescita artistica? Forse nemmeno mastro Cecchetto dopo aver ascoltato le evoluzioni di “Penso positivo”. E invece le esperienze, i libri divorati, i  viaggi, la paternità, i lutti, la politica, la religione, cambiarono il senso delle cose, la totale prospettiva del percorso. Jovanotti diventava sempre meno Jovanotti per trovare sempre più Lorenzo. Una crescita personale autentica, sintetizzata in musica con dischi come “L’albero” e “Capo Horn” fino all‘ultimo “Ora”, che hanno accompagnato la nostra crescita in un continuo viaggio parallelo, il suo e il nostro. Credo stia qui il senso di questa storia, quella di un ragazzo che per sua stessa ammissione non aveva alcuna dote particolare come cantante, ma che sentiva di poter comunicare vita.
Quella musicassetta duplicata, miracolosamente, è ancora qui. Dentro, tra i titoli scritti a penna, c’è un mio appunto che recita: “grazie Jovanotti. Ti voglio bene”. 
Cavolo se gliene voglio ancora.